“Werther Morigi uomo? Con i suoi occhi inondati di fantasie, i suoi silenzi folgoranti, la sua sapienza orientale, la sua estemporaneità tutta romagnola, e sopra ogni altra cosa, quel suo grande cuore in mano, è stato per me una favola. Una favola bella che non potrò mai dimenticare”. (Ariosto Gheller)
Il romanzo Terreno
Werther Morigi è nato il 18 marzo 1915 all’Ospedaletto di Forlì e nella casa-studio di via Cornelio Gallo, dove abitava con la moglie Giuseppina Piraccini, nel ‘47, si trovava appeso un suo autoritratto all’età di sette anni. Iniziò dunque assai presto a dipingere, ma la sua formazione artistica viene situata tra il 1923 ed il 1938, cioè fra gli otto e i ventitré anni. Nei tre lustri di mezzo è situata la parte fondamentale della evoluzione della sua tavolozza e le sostanziose esperienze che lo fanno divenire uno dei principali pittori italiani del Novecento. Tutto ciò passando attraverso infinite lotte esistenziali, professionali, sociali ed anche d’animo, tra sacrifici, soddisfazioni ed emozioni d’ogni genere.
Unico padrone di se stesso, è morto il 28 luglio 1990, con vasta commozione di pubblico. Tali brevi note tracciano appena il contorno del percorso umano di Werther Morigi, che nondimeno sottende a quello pittorico, solo che si ricordino le sue frequentazioni e la sua personalità artistica e morale. Di carattere sanguigno e dotato di fervida intelligenza e creatività, inizia a lavorare come aiutante di pittori che affrescavano chiese e palazzi. A Trieste frequenta lo studio di Umberto Saba ed espone le prime opere importanti (‘36), a Roma conosce Grazia Deledda che lo descrive “foriero di un’arte nuova”.
Nel 1937 inizia la lunga collaborazione coi poeti Marino Moretti, Eugenio Montale e Mario Soldati. Vive in pieno, militare, guerra, prigionia; da Germania a Yugoslavia; da Scùtari (Albania), dove aveva esposto la personale sul bianco-nero alla saletta di Arta (Grecia); mostre obbligate dal destino, visto che si trovava in tali località per gli eventi bellici (‘41-‘43), si plasma la maturazione di Morigi.
Da allora espone numerosissime personali in tutto il mondo accompagnate da scritti di amici poeti e letterati fra i quali Titta Rosa, Alfonso Gatto, Orio Vergani, Mario Pomilio, Alfonso Sanchez, Salvatore Quasimodo. Apre nel 1945 il suo primo studio a Forlì, nel ‘47 Aldo Spallicci cura la sua prima antologica, nel 1952 inaugura la galleria di Milano Marittima e nel 1959 avvia l’atelier di Parigi dove c’era Jacques Prevèrt e gli artisti di tutto il mondo. Stà di fatto che la sua tavolozza solare si fonde all’impressionismo francese, arricchita da inimitabili colori naturali che egli produce da sè annotando un prezioso “ricettario”.
Nel 1975 (G.Abbey Victoria) Federico Fellini presenta la sua prima mostra a New York, scrivendo sul catalogo monografico, al vertice della storia dell’arte morigiana; si procede dall’infanzia al periodo giovanile (1929-’33), a quello veneziano e milanese con la scoperta di Guidi e Carrà. Fiducioso nella forza del proprio segno, Morigi passa dalle tematiche più svariate alle tecniche più viscerali, quali la penna e l’affresco su balla di juta.
Le sue opere destano ammirazione aggiunta per tali contenuti materici in gallerie pubbliche e private internazionali; da Mosca (‘81) a Londra (‘81), da Vienna (‘84) a Tokio (‘86) ricevendo riconoscimenti ufficiali. Dá il meglio di sè a Tenerife, dove nel 1987 presenta la personale Natura Silente e a New York (1990) con la fantasmagorica mostra Realismo Onirico, che suggella Morigi come il pittore più innovativo ancorato alle radici del “figurativo italiano”. In quell’anno l’artista è all’apice della propria carriera: signore della composizione e della luce-colore, ed afferma: “La mia opera più bella è l’ultima, anzi quella che ancora non ho espresso sulla tela, l’insieme delle mie creature; testamento della mia costanza morale ed artistica. Una prova delle certezze che mi hanno accompagnato fin da bambino, nella gioia-sofferenza del mestiere di pittore, che restituisce poesia e sogno alle cose quotidiane.” Rimane la sua verità alla fine di un’intensa esistenza, durante la quale hanno lottato il destino di caducità dell’uomo e ciò a cui solo è concessa l’eternità sulla terra: l’Arte.
Walter Snyder (Da “I Colori dell’Anima”)